SURE: Uno strumento di aiuto europeo alternativo al Mes

Lo strumento europeo di sostegno temporaneo ai tempi del Covid

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Negli scorsi mesi gli Stati europei si sono trovati in prima linea nel contrastare la crisi del Covid-19 con massicci aumenti della spesa pubblica.

Nel primo semestre del 2020, la variazione del debito pubblico in percentuale al Pil ha raggiunto i valori più alti degli ultimi anni. Il deficit è complessivamente aumentato di 121 miliardi nell’ultimo semestre.

Questo è quanto si legge dall’ultimo rapporto di Bankitalia :

“Nel primo semestre 2020 i redditi primari pro capite a valori correnti delle famiglie si sono ridotti dell’8,8% rispetto al primo semestre 2019.”

Ergo, in Italia il debito pubblico aumenta e il reddito pro capite diminuisce.

Tuttavia, l’Unione Europea ha agito da semplificatore con un programma denominato Pepp (Programma di acquisto per l’emergenza pandemica) di acquisti di titoli della Bce(Banca Centrale Europea), cercando di far scendere i tassi di interesse; con la sospensione delle regole di bilancio e con programmi di prestiti mirati ad alleviare gli sforzi dei governi nel sostenere i due settori in cui gli effetti della crisi sono stati più violenti: sanità e mercato del lavoro.

Nei due casi si è scelto di agire seguendo lo stesso principio: le istituzioni europee si indebitano a condizioni favorevoli per poi girare i fondi ai Paesi membri a un tasso, per alcuni di essi, inferiore a quello di mercato. Tuttavia, la scelta europea del veicolo da perseguire è stata diversa a seconda del settore.

Per il mercato del lavoro si è scelto di ricorrere a un meccanismo nuovo, il Sure.

Sure (acronimo di Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency) è, come dice il nome, uno strumento europeo di sostegno temporaneo (valido fino al 31 dicembre 2022), per attenuare i rischi di disoccupazione nella situazione emergenziale venutasi a creare; è pensato per aiutare a proteggere i posti di lavoro e i lavoratori più colpiti dalla pandemia.

Nello specifico, lo strumento SURE funge da seconda linea di difesa per finanziare i regimi di riduzione dell’orario lavorativo e misure analoghe, aiutando gli Stati membri a proteggere i posti di lavoro e, così facendo, a tutelare i lavoratori autonomi e i lavoratori dipendenti dal rischio di riduzione e perdita di reddito.

Il suo obiettivo è dunque quello di proteggere il lavoro. Si tratta pertanto di un fondo immaginato per contrastare la disoccupazione e sostenere i costi della cassa integrazione.

I prestiti erogati nel quadro dello strumento SURE si fondano su un sistema di garanzie volontarie degli Stati membri Ue.

Per la sanità è stato invece adottato lo strumento del Mes, stabilito inizialmente per garantire la stabilità dell’Euro Zona, venendo in soccorso a Paesi in difficoltà sui mercati finanziari. La scelta di applicare il Mes con una di linea di credito, detta “pandemica”, era stata giustificata dall’urgenza Corona Virus di inizio 2020.

Nonostante le molte critiche che le operazioni del Mes hanno suscitato sin dall’inizio, si pensava che l’utilizzo di un veicolo già esistente avrebbe consentito di canalizzare rapidamente risorse verso sistemi sanitari già allo stremo. Tale considerazione, come molti economisti avevano sottolineato fin dal principio, si è rivelata erronea.

Non solo non ha ottenuto i risultati sperati, ma si è rivelato uno strumento altamente limitato, in grado solo di limitare nel tempo la sovranità economica degli stati che lo sottoscrivono.

Oggi il Sure è operativo ed eroga fondi ai 17 Paesi che hanno scelto di domandarne l’assistenza, mentre nessun Paese ha fatto ricorso alla linea pandemica del Mes.

Il Sure appare quindi come uno strumento più adatto ed immediato ai bisogni che deve soddisfare, un veicolo della solidarietà europea verso i Paesi colpiti dalla pandemia. Il Mes invece è uno strumento con vincoli alla spesa molto elevati per il futuro, e del tutto inadatto per far fronte alla pandemia.

Per sostenere le spese dei Paesi membri nel settore della sanità, dunque, si potrebbe replicare, invece del Mes, il modello Sure, che fin’ora ha dimostrato di funzionare meglio.

In questa situazione drammatica, occorrono risposte serie e concrete, in grado di offrire stabilità a tutte quelle classi di lavoratori che oggi si trovano in ginocchio. Non è a colpi di Dpcm e di continue nuove restrizioni che si risolve la grave situazione pandemica, il continuo innalzamento dei contagi lo ha dimostrato.

La prossima ondata della pandemia e la prossima campagna di vaccinazione hanno ribadito l’urgenza di misure a sostegno della sanità, richiedendo scelte coraggiose.

Alla luce di questo, si dovrebbe accettare il verdetto del “mercato” e rottamare il Mes, istituzione di un’altra epoca. E mettere a disposizione dei Paesi europei uno strumento, come il Sure pandemico, che probabilmente sarebbe ben più utile da riadattare alla crisi economico-sanitaria che stiamo vivendo.

Luca Fiore Veneziano

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La Parola è Perduta

Una ricerca iniziatica attraverso uno dei massimi misteri massonici

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Così recita uno dei più importanti passi rituali di tutta la Massoneria:

Il tempio materiale è andato distrutto, tutto è buio senza il nostro Maestro,

la Parola è perduta! “

Ma che cos’è la “parola”?

La parola, intesa come astrazione simbolica, nasce accanto all’azione o all’oggetto che rappresenta. Si tratta dunque di un’unità convenzionalmente universale, o come diceva De Saussure: “di un significante che porta ad un significato”; presente in ogni lingua umana formalizzata, la parola è un vero e proprio “atomo comunicativo”. Etimologicamente deriva dal latino medievale “paraula”, a sua volta derivante dal termine del latino tardo imperiale: “parabola”. Come ci suggerisce l’etimo stesso, in origine il suo significato arcaico indicava un insegnamento, un discorso, un ragionamento derivato da un pensiero, esattamente come lo intendevano anche gli elleni: un Lògos appunto. Con l’affermazione del Cristianesimo, l’unico Lògos concepito su cui fare speculazione, il mero ragionamento accettabile, la sola “parabola” da intendere, divenne quella del Vangelo. Indi, per attenuazione del senso primitivo, la “parola”, versione volgare della Parabola, finì per indicare un detto, un semplice modo di dire, un Motto, sostituendosi al termine parlato del latino classico “verbum”, e per estensione, verso qualunque voce articolata intendente un concetto.

Da qui l’uso più comune e desacralizzato della “Parola”.

Ma che cos’è allora la Parola?

Riallacciandomi alla Leggenda massonica di Hiram, in un primo momento si potrebbe pensare che la “Parola perduta” sia la parola di passo che i tre compagni assassini chiesero insistentemente al Maestro punico per poter carpire i segreti del Tempio di Salomone. Ma analizzando meglio il contesto storico forse si può scorgere un significato più profondo che non una mera richiesta di password.

Innanzitutto, occorre ricordare che nell’età antica ogni atto era sacro, di conseguenza, lo era anche il semplice atto del parlare e del costruire. Questo ci porta a pensare che il Maestro Hiram Abif non era lì in semplice veste di Capo Mastro, ma in quel preciso frangente svolgeva un ruolo ieratico. In quest’ottica, l’omicidio hiramitico assume una maggior valenza sacrilega, poiché i tre compagni d’arte non hanno semplicemente commesso un omicidio, ma hanno macchiato di profanità un luogo sacro. Assodato che la “parola” anticamente aveva un’accezione sacra ed esoterica, vien da chiedersi allora se la Parola smarrita “dalla notte dei tempi” non abbia avuto per gli antichi un significato più articolato e più esteso rispetto a quello odierno. Ed ecco quindi che lo stato di disagio, di assenza, di mancanza, in cui si affligge il Fratello alla ricerca della smarrita Parabola-Lògos, può essere colmato in parte dal parere degli Antichi; i quali ci possono aiutare in questo percorso di ri-cerca e di com-prensione.

I presocratici ci dicono che la Parola è il principio supremo della realtà per cui questa la fa apparire a noi ordinata. Gli orientali ci insegnano che la Creazione dell’Universo sarebbe rappresentata dal suono della vibrazione di una sillaba sacra: la Oṃ(o Aum). Per Platone, il Lògos era la razionalità umana, che si esprimeva nella sua forma più elevata di coscienza. Per Lo “Stagirita” (Aristotele) era il concetto ordinatore della realtà ricavato attraverso l’astrazione. Per i Neoplatonici era l’emanazione diretta del Principio Primo indicante l’Intellectus. Nell’incipit giovanneo troviamo addirittura il Lògos associato a Dio stesso. Da ciò ne possiamo dedurre che a monte del Verbo dovrà esistere un’Idea, un Progetto, che verrà manifestato veicolandolo con il Verbo stesso. Questo suono emesso dà luogo ad una figura geometrica, un logo, il quale feconda la Madre-terra, dando origine alla Vita. Questo è il processo creativo, è il Verbo-Dio che Geometrizza, dando nuove forme alla materia. Infatti, il grande Pitagora affermava che: “Dio Geometrizza” e che “la Geometria delle forme è musica solidificata”. Il suono della Parola-Parabola può pertanto generare forme soniche strutturando la materia. Ancora oggi, nel suo significato profano, la Parabola viene anche definita come un luogo geometrico. Se la Parola è un discorso creatore, e quindi un Lògos; viene il sospetto che il mito di Hiram non sia altro che un simbolo, un Logo, di cui abbiamo perso la chiave di lettura originaria. Parlare della Parola significa quindi fare un ragionamento sul Ragionamento. Seguendo la Tradizione ermetica possiamo dedurre delle semplici equivalenze, ovvero che: una parola è composta da lettere, ogni lettera corrisponde ad un suono, ogni suono equivale ad un numero, un numero ad una vibrazione, ogni vibrazione crea una figura geometrica, il logo geometrico è un seme che feconda la materia generando la vita.

Si può dedurre da tutto ciò che le vibrazioni del suono, attraverso la Geometria, determinano i Principi assoluti della Máthema (Scienza assoluta per gli Elleni, semplice materia di studio numerico per i volgari odierni) e che tutto nell’Universo fu creato con il Verbvm; ergo, con la Geometria e con il Numero. Forse a questo punto si può ipotizzare che la “Parabola” perduta sia semplicemente l’incapacità degli uomini di ritornare al proprio stato edenico originario, ove in principio l’Uomo-Dio manifestava la sua capacità creativa tramite il suono della propria Parola.

Ma vi è forse un significato ancora più profondo, una verità celata dietro il velo di Iside: dal momento che anche il silenzio ha una frequenza, anche il silenzio ha un suono; il suono del Silenzio, essendo per tanto anch’esso “Parabola”, mi induce alla riflessione che forse la Parola non è mai andata perduta, essa, è semplicemente inascoltata.

di Luca Fiore Veneziano

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Turati e il Socialismo Umanista

Quell’umanesimo socialista di cui la nostra politica avrebbe tanto bisogno

Articolo pubblicato su l’Avanti

Viviamo in un’epoca in cui la società e la politica si sono imbarbarite.

L’invidia sociale ha preso il posto dell’antica lotta di classe, le scuole di partito sono accantonate dalla Piattaforma Rousseau, l’analisi politica dalle dirette demagogiche nei social network, la meritocrazia dallo slogan dell’ “ognuno vale uno”.

In quest’Era di semplificazione e di demagogia collettiva sembra non esserci più posto per la buona politica.

Eppure, esisteva un tempo in cui la politica italiana era fatta da giganti.

Nel periodo alle porte delle grandi rivoluzioni, dei grandi sogni e dei fanatismi ideologici collettivi, esistette un uomo che ebbe il coraggio di mettere in guardia l’umanità da simili illusioni: Filippo Turati. Padre nobile della sinistra italiana, cofondatore del più antico partito in Italia: il PSI(allora Partito dei Lavoratori Italiani). Scrittore, nel 1886, del famoso Inno dei Lavoratori. Riuscì sempre a conciliare i valori della Pace e del Socialismo con quelli della Patria dell’Umanità.

Dopo la disfatta di Caporetto del ‘17, convinto che in quel momento la difesa della nazione fosse più importante della lotta di classe, Turati, nel corso di un applauditissimo discorso alla Camera, dichiarò l’adesione del PSI allo sforzo bellico italiano; questa posizione gli valse accuse di social-sciovinismo da parte di Lenin e dei massimalisti. Accuse che si porterà appresso per tutta la sua vita, segnando un spaccatura profonda fra due anime del Socialismo italiano, l’una riformista e tollerante, l’altra comunista e totalitaria.

Contorniato dal furore ideologico dei rivoluzionari e da un clericalismo ancora energico, ebbe l’ardire di immaginarsi e di promuovere un Socialismo senza dogmi, democratico e a misura d’Uomo: il Socialismo Umanista.

Turati, infatti, fu uno dei primi ad intuire che la violenza non era uno strumento efficace per realizzare una società più giusta e più equa. La giustizia sociale non poteva trascendere le libertà umane. La rivoluzione avrebbe solo prodotto altre ingiustizie; e un partito unico al comando, anche se ispirato dai valori socialisti, avrebbe comunque costituito la peggiore delle Tirannie.

Il progresso della società non poteva imporsi con la forza, ma con delle riforme sociali all’interno di un sistema democratico. Per il pensiero turatiano il Partito Socialista sarebbe dovuto divenire il Partito del popolo intero, senza distinzione di classi sociali. Il PSI avrebbe dovuto trasformarsi da partito classista a “partito popolare”, aperto anche alle istanze dei ceti medi. I socialisti europei sarebbero dovuti scendere a compromessi con le Monarchie, la Chiesa e le grandi borghesie; essi avrebbero dovuto abbandonare il marxismo radicale, per dare spazio alla libera impresa e all’uso di mezzi democratici per la lotta politica.

Questa visione riformista, che ad oggi può apparirci scontata, un tempo era fortemente osteggiata dai vari massimalismi, socialisti e non. Basti pensare alla forte connotazione rivoluzionaria che albergava all’interno del Partito Socialista, anche dopo la fuoriuscita dei comunisti nel 1921.

La sua idea umanista sopravvisse anche nel dopoguerra. Quando la società italiana fu divisa fra i due “partiti Chiesa” (DC e PCI); la forza ideologica del suo pensiero, seppur condiviso da pochi, ci ha dato buoni frutti e persino un Presidente della Repubblica: Giuseppe Saragat.

Dovremmo però aspettare il ‘78, con il Vangelo socialista di Craxi e di Pellicani, per veder accettate all’unanimità le antiche tesi del gradualismo turatiano.

Ma se la tardiva “Bad Godesberg italiana” aveva portato il PSI verso un orizzonte pienamente riformista, la rimanente sinistra comunista, ancora maggioritaria nell’alveo progressista italiano, rimaneva ben salda nei suoi principi.

Sarà solo la caduta del Muro di Berlino a decretare la fine definitiva del socialismo Reale, e di chi al socialismo adogmatico di Turati aveva preferito un approccio religioso al marxismo.

La sua idea fu una piccola fiaccola che fece sopravvivere in essa quel poco di cultura riformista presente in Italia.

Anche quando nel ‘68 ci si ammazzava nelle strade, pochi discepoli del minimalismo riformista portavano avanti l’idea che l’unico socialismo realizzabile non poteva trascendere dalle libertà individuali dell’Uomo; e fra esse, dalla salvaguardia della più importante di tutte: la libertà di pensiero.

Ed è proprio questo lo spirito che occorre recuperare oggi. La Tolleranza verso il pensiero altrui. Se la sinistra insegue l’odio del populismo rispondendo con altrettanto furore ideologico, rischia di rievocare fantasmi che il riformismo turatiano, prima ancora della storia, aveva già sconfitto.

Luca Fiore Veneziano

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Le origini della Tradizione iniziatica

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Homo Ludens : Dalla Tragedia greca al teatro pubblico elisabettiano

L’Umanità di oggi non è più abituata ad osservare e ad ascoltare. Per questo un semplice atto banale come il gioco viene spesso trascurato da noi adulti.

Sarà capitato a tutti di assistere al proprio figlio, nipote o bambino altrui, e di vederlo giocare così intensamente, talmente rapito dal gioco, da trascurare tutto il resto; come se vi fosse una sorta di messa o di momento solenne, il quale richiede attenzione e concentrazione al di fuori della realtà circostante.

Un bambino mentre gioca, oltre ad esorcizzare il male, interpreta vari ruoli e rappresenta in forma ludica un rituale sacro, forse la prima forma di ritualità arcaica che veniva manifestata dai nostri progenitori.

L’infante durante l’atto ludico mette in rappresentazione tutti i simboli archetipali umani presenti in natura; e tramite essi, esprime: il bene contro il male, la vita e la morte, la guerra e la pace, l’amore e l’odio. Tutta la realtà duale nel bambino viene manifestata durante il gioco.

Questo semplice atto infantile dovrebbe indurci a pensare che forse il primo atto religioso, la prima tradizione umana, sia stata proprio il gioco. Ed è proprio nella sua dimensione ludica che la poesia, la recitazione, la musica, l’arte, il linguaggio ed infine il pensiero, acquisiscono un significato che le accomuna tutte in un’unica forma di rappresentazione primordiale: il Teatro.

L’accezione odierna di recitazione teatrale non deve indurci in un errore interpretativo. Non dobbiamo dimenticare che in età arcaica l’uomo interpretava ogni suono e ogni fenomeno naturale come mera manifestazione del sacro. Di conseguenza il teatro, così come la poesia e la musica, erano pure rappresentazioni religiose. Oggi, a noi contemporanei risulta difficile crederlo, poiché nei tempi odierni, sia nel teatro che in molte religioni, si tende a vivere e a ridurre tutto ad una semplice e passiva lettura di un copione; il quale viene ripetuto senza la minima consapevolezza del sacro che lo rappresenta.

Invece, fu proprio dalle prime forme di rappresentazione ludico-teatrale che, in contemporanea alla tragedia greca, nacquero gli antichi culti misterici occidentali. L’Orfismo, i Misteri Eleusini e il pitagorismo, altri non sono che correnti iniziatiche derivanti dal teatro greco. In esse si rappresentavano i drammi e le tragedie, ma anche le virtù e la vita, derivanti dal susseguirsi delle stagioni. Esattamente come nel gioco di un bambino, nel teatro si interpretano dei ruoli. Anche nella prima forma di diritto romano era prevista una recitazione rituale da parte di colui che intendeva difendere un imputato, e nel caso in cui vi fossero stati errori o dimenticanze nella ritualità, l’imputato sarebbe stato condannato. Da qui si evince un altro elemento fondamentale presente in molte tradizioni antiche: la Memoria(fondamento dei pitagorici). Essa era uno strumento fondamentale per trasmettere i messaggi teatrali, e di conseguenza tramandare i Misteri rappresentanti la vita stessa, i quali trasferivano agli spettatori la conoscenza attraverso pratiche cerimoniali. Non è casuale che la parola tardo-latina misterium significhi proprio cerimonia. Appare quindi evidente come la dimensione ludico-teatrale fosse in età arcaica determinante per la vita stessa di un individuo, molto più dei tempi odierni.

Se i primi culti misterici, così come le prime forme di diritto umano, hanno origine dal teatro; non deve stupirci che anche le prime società iniziatiche moderne, fra cui la Massoneria, si siano generate da confraternite ludiche e goliardiche: le quali sarebbero derivate dai primi teatri pubblici inglesi.

Questa dimensione giocosa, così come per gli antichi culti iniziatici, non deve indurci a sminuire la portata tradizionale e mistica delle sopracitate società.

La prima forma di Libera Muratoria speculativa venne inizialmente ispirata dall’entusiasmo e dallo spirito di emulazione del teatro elisabettiano inglese.

Durante l’Età elisabettiana una nuova classe mercantile acquistava potere, e con i commerci aumentarono anche gli scambi culturali con l’estero. Si accrebbe così l’interesse verso le humanae litterae, e quindi verso l’Italia, dove gli intellettuali bizantini fuggiti da Costantinopoli (caduta per mano dei turchi il 29 Maggio del 1453) avevano portato con sé gli antichi manoscritti dei grandi classici greci e latini, facendo esplodere un interesse senza precedenti per l’antichità greco-romana e lo studio della lingua ebraica. Questa forte spinta culturale, le grandi innovazioni scientifiche e il teatro pubblico britannico, prima incentrato sui Mystery Plays e poi sulle Morality Plays(ovvero drammatizzazioni teatrali a carattere didattico e religioso), suscitò grande interesse in quelle corporazioni di mestiere che da operative(gilde di costruttori) divennero man mano massonico-speculative(di natura simbolico-filosofica).

Le prime società iniziatiche moderne nacquero semplicemente come una sorta di gioco di rappresentazione, dove si emulava in luoghi protetti ciò che avveniva nei teatri pubblici(spesso sottoposti a censura e a forti leggi restrittive).

Dai teatri rinascimentali inglesi emersero così le prime forme di ritualità esoterica moderna.

Corsi e ricorsi storici verrebbe da dire. Insomma, prima della mistica vi era la ludica. Il sacro in principio corrispondeva alla poesia recitata e cantata, al teatro ludico e musicale, in cui ogni suono era considerato numinoso, ogni ruolo interpretato un archetipo importante da manifestare ritualmente. Le prime religioni, indicanti l’origine stessa della vita e degli esseri umani, risiedevano proprio nella prima forma di gioco organizzato collettivamente: il teatro. A tal proposito, risulta significativo che il termine latino “persona” presso gli etruschi indicasse proprio una maschera teatrale.

Forse ha ragione lo storico olandese Huizinga, il quale, nel suo famoso saggio “Homo Ludens” afferma che prima delle molteplici tradizioni umane vi era un’unica Tradizione primordiale: il Gioco.

Luca Fiore Veneziano

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Quella Francia macroniana che aspira ad essere “Impero”

Articolo preso da: https://www.civico20news.it/mobile/articolo.php?id=39886

Ad osservare bene la politica estera di questi ultimi anni, sembra quasi che la Francia non abbia mai smesso di vedere e di percepire se stessa come “Impero bonapartista”. Il suo forte interventismo in Africa e nel Mediterraneo ne sono la conferma. Piaccia o no, Parigi sta agendo come attore globale. La Francia è oggi un Paese ascoltato e capito nella nuova realtà internazionale. Si propone propagandisticamente come portavoce dei popoli, delle loro aspirazioni ad un avvenire più giusto e più sicuro. Almeno, questo è il messaggio che abilmente è riuscita a far passare. Così come abilmente utilizza la propria lingua nelle sue ex colonie come strumento di assimilazione ed identificazione culturale. 

La Francia viene rispettata e riconosciuta come unica potenza nucleare presente nel Continente europeo. Essa infatti pensa all’Europa più come a se stessa che non come a uno spazio comunitario. Quando Macron fu eletto, occorre ricordare che alle nostre latitudini, con un sentimento europeista un po’ ingenuo, si vedeva questo avvenimento come una grande speranza di rilancio verso l’integrazione europea. Questo bel “sogno” europeista ha dovuto fare i conti con la realpolitik francese, la quale più che ad un’ integrazione ha sempre puntato ad un’ assimilazione francese dell’Europa.

Da diverso tempo, già con i precedenti governi, la Francia ha assunto un atteggiamento di Politica Estera neogollista. All’interno dell’ “Impero egemonico Americano” è riuscita a ritagliarsi un suo spazio d’intervento nell’area sub-sahariana e ora persino nelle aree del mediterraneo che un tempo erano di nostra influenza(Libia fra tutte). 

Non è solo da questo ultimo esecutivo che la Francia persegue un disegno geopolitico volto alla grandezza; basti ricordare che già ai tempi della Terza e della Quarta Repubblica l’estensione territoriale francese era ben più ampia del Secondo Impero. Tuttavia, a Macron, va dato il merito di aver risollevato una Francia a pezzi, ereditata dall’ultimo governo socialista e ridotta ai minimi termini, depressa, incerta sul suo futuro. Ora, invece, abbiamo un paese fortemente competitivo con l’Italia, sia in Europa che nel mediterraneo. Dopo avere indebolito la nostra influenza a seguito delle primavere arabe; la Francia di Macron sembra voler perseguire la strategia anti-italiana di Sarkozy, volta persino a sottrarci vette alpine lungo i nostri confini. Non solo! Gli eredi dello “schiaffo di Tunisi” si rendono partecipi di una politica a tratti aggressiva nel vicino oriente, in particolar modo in Libano ed in Siria; dove risultano essere persino più interventisti degli stessi Stati Uniti. Dinanzi ad un’Italia ed una Germania impotenti e conniventi verso la Turchia; Parigi, svincolata da tutto, si pone come unica potenza europea e mediterranea in grado di “zittire” Ankara.

La Francia macroniana, pur essendo ancora una potenza di medio raggio sotto l’influenza USA, vuole “interpretare” se stessa come attore protagonista di uno scenario che va ben oltre l’Europa. Dopo aver consolidato l’asse franco-tedesco ed aver ritrovato sua centralità interna, svincolata, già dal 2002, dal vecchio limite della coabitazione; ora, gli eredi di Napoleone non hanno più limiti, avendo un semipresidenzialismo sempre più sbilanciato verso la Presidenza della République

Uno dei fattori di successo francese è anche la totale assenza internazionale dell’Italia in questi ultimi anni. La Francia sta portando avanti la politica internazionale che avremmo dovuto fare noi. Si fa valere durante la stipula dei trattati europei, all’occorrenza sfora i vincoli di bilancio per rilanciare la sua economia; dà una linea di politica economica comune alle sue aziende, volta a portare altri stati verso la propria sfera di influenza; porta avanti la visione geopolitica del grande stratega Alexandre Kojève, il quale, prevedeva che la Francia si ergesse a paese guida del Mediterraneo e presso tutti i paesi di lingua neolatina; così da costituire una potenza neolatina egemone erede dell’Impero Romano, in modo tale da risultare alternativa sia alla potenza americana che a quelle asiatiche. 

Insomma, fin quando avremo un esecutivo così assente in politica estera il piano egemonico francese non potrà che crescere, dinanzi alla nostra impotenza di spettatori inermi della Storia.

Leggimi anche su: https://sfero.me/article/francia-macroniana-aspira-essere-impero

Luca Fiore Veneziano

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Quel “politicamente corretto” che non include Cina e paesi islamici

articolo preso da : https://www.civico20news.it/mobile/articolo.php?id=39887

È di pochi giorni fa la notizia secondo cui l’ex Presidente della Camera Laura Boldrini chiederebbe i danni al leader politico della Lega Matteo Salvini. Per cosa?, ci si domanderebbe, la “sentenza”: per incitamento all’Odio. “Odio”, parola spesso abusata dei media mainstream ed utilizzata come strumento per zittire il dissenso proprio dalla parte politica della “Presidenta” Boldrini. In questo “gioco di ruoli”, politico e mediatico, dove i carnefici si trasformano spesso in vittime, assistiamo costantemente all’ipocrisia di chi vede odio e “fascismo” ovunque, eccetto al proprio interno, giustificando la propria condotta politica, incentrata per decenni nel sostenere dittature totalitarie fondate proprio sull’odio e l’intolleranza verso i propri dissidenti ed avversari politici. Questa sinistra “boldriniana”, che per anni si è fatta alfiere di battaglie ideologiche disgreganti ed inquinanti del clima politico e sociale, ha disseminato odio fra classi e fra generi, salvo poi salire sul piedistallo della pubblica morale per impartire lezioni di “bon ton” istituzionale e per riformare una sorta di “neolingua orwelliana” basata sui principi del “politicamente corretto”.

Appare oramai chiaro che il “politicamente corretto” è precisamente una forma di dogmatismo, sempre più distruttivo del pensiero liberale stesso; poiché nasce e cresce su un terreno liberale, ma ne corrompe il senso, tradendo il suo significato più profondo. Trasforma un metodo aperto in un credo chiuso. Esso infonde a chi lo usa una presunzione di superiorità verso gli altri. Vede coloro che la pensano in modo diverso come i nemici contro i quali bisogna ingaggiare un combattimento teso alla censura e all’ostracismo. Esso ha un modus operandi tipico dei regimi illiberali: etichetta i suoi avversari politici, qualificandoli come inadatti per una società civilizzata e “aperta”; meritevoli per tanto di essere banditi, evitati, esclusi da qualsiasi forma di rapporto. Si tratta esattamente dei metodi contro i quali il pensiero critico si ribellò, dando alla luce il liberalismo politico e filosofico moderno.

Da qui nasce l’evidente contraddizione ideologica di chi, per celare il proprio passato comunista e filo-dittatoriale, utilizza slogan tipici del liberalismo libertario. Una simile contraddizione appare ancora più evidente se rapportata in politica estera; dove per la sinistra italiana, se l’avversario politico interno è tacciato di essere un orribile maschilista autoritario, nelle relazioni estere con regimi realmente maschilisti e dittatoriali simili accuse decadono come d’incanto, giustificando il tutto con la favola del principio, tutto “liberal arcobaleno”, del rispetto della cultura altrui. Ed ecco improvvisamente vedere i moralizzatori dei diritti civili e i profeti della morale in Patria stringere le mani insanguinate dei comunisti cinesi ed indossare veli in visita nei paesi islamici. Mi chiedo dove siano i moralisti e le femministe della sinistra quando i loro leader politici stringono accordi con regimi teocratici sunniti e sciiti; mi chiedo dove si siano nascosti i sostenitori delle campagne “Restiamo Umani” quando i loro movimenti stringono alleanze con la Repubblica Popolare Cinese. Tutte queste contraddizioni purtroppo non sono nuove nel panorama politico italiano. Già negli anni ‘70 avevamo una sinistra sessantottina che mentre gridava alla dittatura democristiana faceva l’occhiolino al maoismo e alle dittature comuniste di tutto il mondo. Ancora oggi come allora, gli esponenti della sinistra, adottano gli stessi metodi di violenza e di intolleranza politica; essi hanno semplicemente mutato gli slogan e il nome dei propri movimenti, ma nella sostanza sono gli stessi agitatori politici di sempre, gli stessi eredi dei “figli di papà” di Valle Giulia che si scagliavano contro i poliziotti proletari. Il loro amore per le dittature viene oggi mascherato ed edulcorato dal linguaggio del “politically correct”; il quale, all’occasione, viene usato per mettere letteralmente alla gogna mediatica chiunque non si pieghi sulle loro posizioni.

Come disse una volta Veneziani, urge costruire in fretta una solida alternativa culturale, dopo il rigetto occorre il Progetto. O forse, l’unico modo per contrastare dei simili odiatori di professione è fare uso del solo strumento logico che si addice ad ogni persona dotata di spirito critico: il buon senso.

Leggimi anche su: https://sfero.me/article/ipocrisie-sinistre

Luca Fiore Veneziano

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MES: alcune precisazioni.

Articolo preso da Civico20News :

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Di Luca Fiore Veneziano

Da molti mesi ormai si sente parlare di: “MES sanitario”, “prestiti agevolati”, “regali dall’Europa”, “Bonus dalla UE” e via dicendo… Ma è davvero così?

C’è ancora chi sostiene che i fondi MES per combattere il Covid non sarebbero sottoposti a nessuna condizionalità. Eppure queste ultime sono esplicitamente scritte nei documenti ufficiali.

Ma procediamo con ordine. Il MES, ovvero il Meccanismo Europeo di Stabilità, nasce concettualmente a seguito del Trattato di Amsterdam nel 1997, per poi trovare applicazione definitiva nel 2012. Chiamato anche “fondo salva-stati”, è una sorta di salvadanaio amministrato da un organismo intergovernativo con sede in Lussemburgo per conto dei paesi che aderiscono all’euro. L’intento è quello di garantire stabilità finanziaria all’interno dell’Euro Zona. In che modo? La logica che persegue la UE dal ‘92 in poi è sempre la stessa: ovvero quella di fornire prestiti per indebitare i paesi in difficoltà economica, per poi punire gli stessi per via dell’elevato debito contratto. Un cortocircuito dannoso quanto controproducente.

Ogni tanto si riapre il dibattito sul possibile ricorso al MES per finanziare la grave crisi economica. Chi è a favore di ciò avanza tre argomenti: il primo è che i fondi saranno disponibili subito; il secondo è che possiamo spendere questi fondi come vogliamo; e il terzo è che ricorrere ad essi non comporterà condizioni. Analizziamo bene queste argomentazioni.

La disponibilità immediata dei fondi dipende dall’Organo del MES che acconsente le modalità di prestito ed assistenza, ovvero il Consiglio dei Governatori: composto dai 19 Ministri delle finanze dell’area euro, i quali assumono all’unanimità le decisioni principali. I diritti di voto dei membri del Consiglio sono proporzionali al capitale sottoscritto dai rispettivi paesi. Francia e Germania hanno diritti di voto superiori all’Italia, e possono quindi porre il loro veto anche sulle decisioni prese in condizioni di urgenza e di prestito immediato.

Riguardo invece alla tesi secondo cui i fondi potranno essere spesi come vogliamo, occorre precisare quali saranno le tre sole aree di intervento per cui si potranno utilizzare i 36 miliardi del MES. La prima è quella che riguarda i costi sanitari, inerenti alla prevenzione verso la situazione pandemica del Corona virus. La seconda riguarda invece le spese indirette, come quella per ospedali, farmaci e cure ambulatoriali. Nella terza infine vanno indicati tutti gli altri costi indiretti relativi sempre all’assistenza sanitaria e alla sola cura del Covid-19. Ergo, tutto ciò che risulterà al di fuori dell’emergenza pandemica non potrà essere finanziato coi fondi del MES.

Partendo dal presupposto quasi scontato che in Economia che non esiste prestito senza un tasso d’interesse, vediamo ora in che modo anche l’ultima tesi favorevole all’accettazione del MES sia fallace.

Stando al documento ufficiale pubblicato l’8 maggio 2020 dal board del MES, il term sheet, cioè la specificazione delle clausole che regolano il prestito per affrontare il Covid, ci dice che: Il comma 4 dell’art. 2 stabilisce che “il paese membro del MES beneficiario dovrà adottare misure correttive volte a contrastare le debolezze che rendono difficile l’accesso ai mercati finanziari e ad evitare ogni problema futuro riguardante il finanziamento sul mercato”. L’art. 5, invece, stabilisce che “se viene concesso un prestito il paese membro del MES sarà sottoposto a una sorveglianza rafforzata da parte della Commissione Europea.” In sostanza, usufruire della linea di credito MES-Covid implica l’accettazione delle clausole previste per la linea di credito ECCL(cioè soggetta a condizioni rafforzate), senza particolari esenzioni. Queste clausole si ispirano alla filosofia della buona amministrazione bancaria: secondo cui i soldi si prestano sulla base di impegni rigorosi da assumere da parte del debitore.

L’Italia è la terza economia del Vecchio Continente, dopo la Francia e la Germania, ma è anche quella col debito pubblico più alto in assoluto, il terzo dopo Grecia e Spagna se rapportato al PIL. Appare quindi evidente come sia del tutto svantaggioso per il nostro Paese aggiungere debito ad altro debito; soprattutto in assenza di sovranità economica sia in materia fiscale che monetaria.

Naturalmente se si potesse avere fiducia nelle Istituzioni europee la situazione sarebbe diversa, ma lo “spettro” della crisi economica greca è ancora dietro l’angolo a ricordarci che forse “fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio”.

Luca Fiore Veneziano

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L’ombra della FIAT sulla storia del Torino

Praefactio

Penso meriterebbe ampia trattazione un’analisi su come tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90 a Torino si sia fatta letteralmente “terra bruciata” per tutto ciò che fosse sport di squadra extra-calcistico, come a voler cancellare eventuali distrazioni da quello che per il “tifoso medio” doveva essere in città una specie di pensiero unico, quella squadra maledetta insomma.
Avevamo una società che vinceva gli scudetti e le coppe campioni del volley, un’altra che si faceva valere nella serie A1 di pallacanestro; eppure in breve tempo si sono prosciugati finanziamenti e un ostruzionismo silenzioso ha costretto entrambe all’anonimato prima e al fallimento poi.

Stesso discorso per le società di calcio delle altre province piemontesi, ancora significative nei decenni precedenti e poi relegate nel fango dell’ultra-provincia, ai margini dei campionati professionistici(Pro Vervelli in primis). Troppo vicine in termini geografici, evidentemente, al cuore (bianco)nero dell’unica società ritenuta degna di esistere(quella del Gruppo Agnelli), e penalizzate in un modo analogo al Torino (imprenditori presumibilmente intimiditi dal rilevarle per farne società di un certo interesse, a differenza, per dire, delle tante squadre provinciali arrivate a stazionare stabilmente in serie A in regioni anche vicine al Piemonte, come la Lombardia, l’Emilia o il Veneto). In Piemonte questo non è più successo dalla retrocessione dell’Alessandria di Rivera – pensate un po’ – fino al pallido ritorno sulla ribalta del Novara, qualche anno fa.

Da Pianelli a Rossi passando per Ciminelli: la Presidenza del Toro all’ombra del Gruppo Agnelli

Immaginate di svegliarvi domattina, andare in edicola a prendere il giornale, o accendere il pc e trovare una notizia clamorosa, del tipo “Fiat, nuovo sponsor del Torino Football Club“. Una notizia che sconvolgerebbe tutti i tifosi granata, che increduli inveirebbero contro il loro presidente, disorientati da una decisione che ai più sembrerebbe una resa ufficiale al più forte e ricco nemico bianconero e una svendita della propria identità all’eterno rivale. Ed è anche semplice immaginare i post sui social network, gli striscioni allo stadio e le proteste di tutti, compresi i tifosi bianconeri che sicuramente non accetterebbero di buon grado, nemmeno loro, che la Fiat aiuti economicamente i “cugini meno nobili” della città.

Questa che sembra una bizzarra fantasia, fu un avvenimento che accadde realmente poco più di 70 anni fa quando l’Italia del calcio, flagellata dalla seconda guerra mondiale, dopo il primo scudetto di quello che stava per diventare il Grande Torino, fu costretta alla divisione dei campionati 1943/44 e 1944/45, in gironi territoriali, in quanto le difficoltà nei trasferimenti, causate dai bombardamenti degli alleati, la sospensione delle linee ferroviarie, che costrinsero i viaggiatori ad affrontare spesso dei tratti a piedi, resero impossibile lo svolgimento regolare delle competizioni.

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Per evitare i rischi della chiamata alle armi dei propri tesserati, molte squadre si ingegnarono, assicurando i propri campioni alle industrie più importanti della nazione, facendoli passare come indispensabili per i processi produttivi relativi alla costruzione di equipaggiamenti bellici nazionali (che in quel periodo andavano sicuramente più che le auto), esentandoli di fatto dall’impiego al fronte.

Nel 1944 fu proprio la Fiat a venire incontro al Torino ed ai suoi giocatori, grazie al presidente Ferruccio Novo che riuscì a stipulare un accordo, impensabile ai giorni nostri, con la casa automobilistica, dando vita al Torino-Fiat, nome che somigliava a quello di una squadra aziendale, con Mazzola e tutti gli altri giocatori del Toro, assunti come operai alla Fiat, e ritratti in più foto d’epoca al tornio e alle macchine utensili, mentre la Juventus emigrò ad Alba, abbinando il suo nome alla Cisitalia, azienda dell’indotto auto, appartenente all’allora presidente bianconero Piero Dusio.

Una curiosità di quel Torino, fu la presenza in granata di Silvio Piola, che poté giocare nella stagione 44/45 a fianco di Mazzola e compagni, in prestito dalla Lazio, per motivi logistici, infatti essendo vercellese per prelevare la propria famiglia e portarla nella capitale, rimase bloccato in alta Italia dalla guerra, e “costretto” a giocare quella stagione nel Torino.

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Resta da chiedersi come mai la Fiat, sponsorizzò proprio il Grande Torino, mettendo per una volta la propria creatura, la Juve, in secondo piano rispetto ai cugini, destinandola ad Alba, comparendo addirittura col proprio marchio sulle maglie granata. Forse quell’accordo era figlio di un periodo in cui si badava più a salvare la pelle che alla forma, e in questo modo si salvarono appunto capra e cavoli, oppure la Fiat stessa rendendosi conto della grandezza di quella squadra, non perse l’occasione di legare il proprio marchio agli invincibili. Quel che non si può negare, è che per una volta, nella storia, la Fiat aiutò seriamente i granata, consentendo agli stessi di diventare eroi, pochi anni dopo. Il matrimonio tra i granata e la Fiat durò due anni, fino al termine del conflitto bellico.

Ma il filo che lega la Fiat al Torino, se pur meno marcato e sempre molto sottile, quasi invisibile, è sempre stato presente nella storia granata, infatti dopo Ferruccio Novo, imprenditore nell’industria del cuoio (quindi completamente slegato dalla Fiat) i suoi successori più famosi, illustri e longevi, esclusi quelli del comitato di reggenza e del comitato esecutivo, necessari dopo le dimissioni di Novo perché la società brancolava nel buio, furono tutti in qualche modo legati alla casa automobilistica torinese, partendo da Orfeo Pianelli imprenditore della ditta Pianelli e Traversa, che fondò la sua impresa nella Torino del dopoguerra (25 novembre 1945) che si occupava di linee ed impianti elettrici industriali, diventando in pochi anni da semplice “boita” ad azienda con commesse in Francia, Stati Uniti e Unione Sovietica. Erano gli anni 60′ quelli in cui Torino cominciava a familiarizzare con le automobili, che diventarono da semplice mezzo per spostarsi a vero e proprio status symbol, con la Fiat che nel periodo ruggente del boom economico lanciò le sue utilitarie alla conquista del mondo, e la Pianelli e Traversa che inserita tra i suoi fornitori per i meccanismi delle catene di montaggio, fece letteralmente fortuna.

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Era la Torino del boom economico, che agli occhi del mondo significava principalmente auto e Fiat, che oltrepassava i 120.000 dipendenti con un fatturato di oltre 600 miliardi, e Pianelli per soddisfare al meglio il proprio cliente rilevò da Sergio Rossi (suo successore alla presidenza del Torino Calcio) la Metallotecnica Veneta, la Ghisfond, la Olmat, la Ruffini e la Gutter investendo anche all’estero raggiungendo oltre 5 mila dipendenti con un fatturato di 60 miliardi l’anno. Un legame forte che si consolidò di anno in anno, ma nonostante questo, Orfeo Pianelli osò sfidare la famiglia Agnelli e la Juventus, col suo Torino che ebbe la forza di rifiutare un’offerta di 300 milioni fatta dai bianconeri per Gigi Meroni, e andare a strappare proprio alla squadra della Fiat lo scudetto del 1975/76 coi gemelli del goal Pulici e Graziani, con la popolarità del “suo Toro” che stava tornando a livelli mai più raggiunti dopo il Grande Torino che sembrava mettere in ombra anche l’altra squadra della città.

Ma si sa, le fortune al Toro duran poco, e nel 1978, un anno dopo il campionato che vide vittoriosa la Juve per un punto sui granata, che fecero comunque 50 punti, un fatto terribile colpì il presidente granata, col rapimento del nipotino Giorgio Garbero, e il pagamento di un riscatto folle per la sua liberazione, che segnò l’inizio della fine dell’impero del patron granata, con il conseguente disimpegno progressivo dal Torino Calcio, ma ancor peggio il crollo finanziario della sua impresa, che non si riprese mai più da quella sciagura, anche a causa dell’improvvisa perdita di quasi tutte le commesse provenienti dalla Russia, negli anni successivi la conquista dello scudetto. La Pianelli & Traversa fallì e con lei scomparve anche il Toro dello scudetto, sostituito nel 1981 dal Toro di Giacomini, fatto di giovani promesse che dovevano necessariamente segnare un punto di rifondazione per una squadra costruita in quasi vent’anni e smantellata in pochi mesi.

Il povero Pianelli venne incriminato per truffa e bancarotta fraudolentaarrestato a causa di una lettera anonima indirizzata al ministro del Finanze e alla Finmeccanica che informava che nelle aziende del gruppo sarebbero esistite gravi irregolarità nel pagamento dei contributi previdenziali e che lo stesso Pianelli avrebbe sottratto 14 miliardi in modo fraudolento. Venne condannato a sei anni e sei mesi di cui 3 condonati, e a pagare una multa di 400 milioni, per il fallimento della sua impresa, ma venne prosciolto dalle accuse di bancarotta fraudolenta, falso e truffa. Orfeo Pianelli in lacrime nell’aula del tribunale disse: “Scrivete, che mi sono già fatto quindici mesi di arresti domiciliari. Tutto questo per aver cercato di salvare la mia azienda e i miei operai. Gli affari mi sono andati male perché, ad un certo momento, non ho avuto un Gheddafi come ha avuto la Fiat. Ho lavorato sempre con le mie forze, ma superare la crisi con un complicato giro di cambiali dopo il riscatto di un miliardo e mezzo pagato, la perdita di moltissime commesse e senza aiuti è stato impossibile“.

Se pensiamo che fino all’anno dello scudetto del Toro la Pianelli & Traversa era un’azienda solidissima, ricca e produttiva e che prima il rapimento del nipotino, poi le accuse anonime, dimostratesi successivamente false nei confronti del presidente granata, distrussero un impero con tremila dipendenti, posto sotto amministrazione straordinaria con Pianelli rinviato a giudizio per bancarotta fraudolenta con distrazione, falso e truffa in due anni, è facile intuire che tipo trattamento subì una persona che bastava guardare negli occhi per capire di che pasta fosse fatto, un uomo onesto, che mise a rischio la sua impresa per salvare il nipote, senza ricevere nessun aiuto, ma solo bastonate che gli diedero il colpo di grazia.

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Il suo successore, fu il gentiluomo Sergio Rossi, patron della Comau, che acquisì il Torino Calcio nel 1982, portandolo in pochissimi anni ad ottenere un risultato storico nel 1985 con il secondo posto dietro al Verona. Anche Sergio Rossi fu legato indissolubilmente alla Fiat, perché la Comau, azienda che si occupava della robotizzazione delle linee industriali, forniva la casa automobilistica in tutti i suoi stabilimenti, assumendo una posizione di dipendenza da un azienda da cui poi venne anche acquisita. Sotto la sua presidenza, il Toro compì un’altra impresa, ricordata ancora oggi da tutti, ovvero la celebre rimonta da 0-2 a 3-2 in tre minuti in un derby che resterà per sempre nella storia del Torino, e acquistò uno dei giocatori ancora oggi nel cuore dei granata come Leo Junior, mantenendo la squadra stabilmente nelle prime posizioni di classifica.

Un uomo burbero, ma sincero, che non accettava compromessi e imposizioni, costretto a suo dire, con molto rammarico, ad abbandonare il Torino dopo una stagione terminata soltanto all’undicesimo posto a causa di inspiegabili, quanto strane contestazioni ricevute da sparuti gruppi di pseudo-tifosi granata. Ufficialmente il motivo fu questo, ma viene legittimo chiedersi come sia possibile che un uomo che ha saputo lottare come un leone per la sua impresa, in grado di costruire un’azienda come la Comau, si sia arreso di fronte alle prime contestazioni dopo quattro anni di crescita. Un uomo che in quegli anni era considerato tra i cento Paperoni d’Italia, capace di comprare la Graziano, pagandola in contanti, che a causa di qualche tifoso scontento, decise di svendere il suo Toro in ottima salute finanziaria a Mario Gerbi (casualmente un altro industriale metalmeccanico torinese legato a Fiat), e Michele De Finis per soli 6 miliardi, quasi come se volesse liberarsi della squadra nel più breve tempo possibile, anche rimettendoci del proprio. Sarà forse stata proprio questa decisione ad evitargli di finire male come il suo predecessore, e come tanti suoi successori che si rovinarono proprio a causa del Toro, in una città troppo piccola per avere due squadre competitive in serie A? (Citiamo per conoscenza un’articolo di Repubblica che parlava di questa strana cessione)

Gerbi e De Finis riuscirono in due anni a fare quel che nemmeno la tragedia di Superga fu capace di combinare in cosi breve tempo, ovvero di portare il Torino in serie B, vendendo tutti i giocatori più rappresentativi, prima di cedere il passo a Gianmauro Borsano. Gli anni di Borsano furono forse quelli delle ultime vere soddisfazioni sportive per i tifosi granata, pagate però a caro prezzo con la società che rischiò il fallimento dopo la sua gestione e quella del notaio Goveani, uomo a lui legato, che lasciarono il Torino nelle mani del tribunale fallimentare già nel 1994, quando sembrava che il crack finanziario dei granata fosse inevitabile a causa della situazione patrimoniale disastrosa, e dei numerosi creditori pronti far partire azioni legali per rivendicare i propri crediti.

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Fu allora che accadde un fatto che ancor oggi dopo quasi vent’anni ha dell’incredibile: le azioni del Torino Calcio erano di fatto sotto sequestro del tribunale fallimentare che attendeva un’offerta valida per l’acquisto della società, da parte di qualche imprenditore che fosse in grado di impegnarsi a ripianare i debiti risanando il Torino. Fu allora che apparvero sulla scena due personaggi, opposti ma in quel caso complementari come Luigi Giribaldi e Gianmarco Calleri. Il primo un noto imprenditore piemontese, tifosissimo granata e azionista di maggioranza della Traco fino a 5 anni prima, che dalla sua vendita ricavò una liquidità seconda solo a quella dell’Avvocato Agnelli a Torino, un uomo forte della finanza, uno scalatore, che attraverso i suoi fondi e la sua abilità riuscì a mettere alle corde addirittura un certo Carlo De Benedetti, costretto a liquidarlo profumatamente allorché Giribaldi acquisto il 5% delle azioni della della Gaic, la finanziaria e di Camillo e Carlo De Benedetti e circolava voce in quegli anni che fosse intenzionato addirittura a tentare la scalata alla Fiat. In quel periodo conservava partecipazioni in una ventina di società e grazie alla sua enorme liquidità comprava e vendeva, ricomprava e rivendeva. Insomma, un magnate, l’uomo in grado di far sognare il Torino e i suoi tifosi, risanare la società e farla tornare vincente.

Il secondo, Gianmarco Calleri, già presidente della Lazio, che riuscì a salvare dal fallimento, e proprietario di diverse imprese tra cui la Mondialpol. Un personaggio dalle risorse finanziarie decisamente inferiori rispetto al primo, ma gran conoscitore ed appassionato di calcio. In tandem i due avrebbero rilevato la società granata occupandosi rispettivamente della parte finanziaria il primo e della parte sportiva il secondo. Sembrava l’accoppiata perfetta, un sogno che stava per realizzarsi, anche in considerazione del fatto che l’eventuale fallimento del Torino, non spaventava soltanto i tifosi granata, ma anche altre società di calcio tra cui la Juventus, alla quale il fallimento del Toro sarebbe costato l’automatico concorso in bancarotta fraudolenta per l’acquisto di Dino Baggio. Stesso destino per Milan (Lentini), Napoli (Policano) e Lazio (Cravero).

Purtroppo tutte le offerte che i due imprenditori fecero, vennero sempre rispedite al mittente dal tribunale fallimentare, che di fronte ad una proposta di acquisto in leasing della società e ad un graduale risanamento della stessa rispose picche, così come fece quando i due imprenditori avanzarono delle vere e proprie offerte in denaro per rilevare le azioni sotto sequestro. Il solo Giribaldi arrivò ad offrire fino a 15 miliardi che uniti ai soldi di Calleri, più tutti i capitali, intesi come giocatori sotto contratto, avrebbero coperto ampliamente la totalità dei debiti, ma l’inspiegabile ostruzionismo del tribunale fallimentare di fronte a queste proposte, fece desistere l’imprenditore residente nel principato di Monaco, che si ritirò ufficialmente dalla gara per l’acquisizione della società granata, lasciando il solo Calleri a concorrere per la Presidenza.

giribaldi

Ovviamente la proposta del solo Calleri venne invece accolta a braccia aperte, dal curatore, che dissequestrò a suo favore le azioni del Torino, consegnando le chiavi della società granata all’imprenditore ligure, alla quale abbuonarono, come gesto di grande disponibilità verso il nuovo arrivato, 2 miliardi di capitali versati, anche i vecchi proprietari Goveani e Savoia che si dimostrarono invece intransigenti allorché nella corsa alla presidenza concorreva anche Giribadi (sarà stata per una questione di simpatia forse). Con buona pace di tutti quindi, Calleri diventò presidente del Torino, e in due anni vendette tutto quel che era vendibile, smantellando il settore giovanile, fin li fiore all’occhiello della società granata, svendendo tutti i migliori giocatori, portando il Torino alla retrocessione in soli due campionati. Si difese sempre dalle accuse dei sostenitori granata, che lo criticavano a causa degli scarsi risultati, sostenendo che quello era l’unico modo per evitare il fallimento e che al posto di criticarlo, i tifosi avrebbero dovuto fargli un monumento.

Sorge spontanea una domanda… Perché il tribunale fallimentare che si è messo di traverso alla proposta fatta da Calleri e Giribaldi, ostacolando l’acquisizione in tandem della società, ha successivamente accettato la proposta del solo Calleri, tra l’altro la parte meno abbiente tra le due, il cui piano di salvataggio prevedeva essenzialmente la vendita di tutto quel che poteva essere venduto, in quanto Calleri non avrebbe avuto la forza economica di poter fare diversamente? Perché dopo i vari rifiuti che hanno spinto Giribaldi a ritirarsi dalla corsa per il Toro, il tribunale si è poi dimostrato molto più aperto nei confronti del solo Calleri? Purtroppo non conosceremmo mai i motivi di queste decisioni, quel che si sa con certezza, è che il Torino con il ritiro di Giribaldi dalla scena, ha perso una grandissima occasione per ritornare grande, ed iniziare finalmente un ciclo vincente che da troppi anni i tifosi aspettavano.

La presidenza di Gianmarco Calleri durò tre anni, in cui venne raso al suolo tutto quel che poteva essere monetizzato, venne completamente abbandonato il progetto di ristrutturare il Filadelfia, che nel frattempo venne dichiarato inagibile e la squadra retrocesse in serie B al secondo anno di gestione, non riuscendo a centrare l’immediata promozione in serie A, prima che Calleri la cedesse, diciamo così, al primo venuto per scaricare il moccolo a Massimo Vidulichnon senza debiti ed ammanchi di bilancio.

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Massimo Vidulich sebbene sia ricordato malamente e di controvoglia da tutti i tifosi granata, era invece un ottimo dirigente e soprattutto indipendente dalla Fiat. Quando acquistò il Toro, riunendo una serie di imprenditori liguri tra cui Regis Milano e altri, esordì con propositi interessantissimi per la piazza, costruendo anche una squadra che si dimostrò subito competitiva per la serie B, con gli acquisti di LentiniMinottiBucciAstaDorigo, i 2 BonomiComotto, ecc., con un grave errore nella scelta del mister a inizio stagione quando si optò per Graeme Souness, che venne esonerato dopo un inizio disarmante e sostituito da Edi Reja che riuscì ad arrivare fino allo spareggio promozione perso ai rigori contro il Perugia con un finale di campionato macchiato da svariati episodi arbitrali negativi clamorosi. La promozione in serie A al secondo tentativo con Emiliano Mondonico in panchina, giunse al termine di una stagione quasi trionfale dove un buon Torino seppe conquistare il secondo posto, raggiungendo la A con tre giornate di anticipo. L’anno successivo invece la sfortuna tornò a far capolino in casa granata che si ridussero ad un campionato da comprimaria, per poi terminare al 15 posto retrocedendo, dopo un inizio di stagione quasi da zona UEFA, compromesso a causa del gravissimo infortunio di Scarchilli.

Ma quel che maggiormente fece specie alla tifoseria e probabilmente non solo, in una Torino in cui i poteri forti vestivano un colore diverso dal granata, furono le sue dichiarazioni di inizio mandato, che diedero un vero e proprio scossone all’ambiente, con la promessa di ricostruire il Filadelfia e la minaccia di prendersi da solo il Delle Alpi, nel caso in cui il comune si fosse messo di traverso nella questione relativa al vecchio stadio del Grande Torino.

I Genovesi furono come un macigno gettato nel laghetto di un isola felice, quella di una città, Torino, in cui l’assegnazione dei giochi olimpici del 2006 aveva fatto scoppiare la grana degli stadi, con la Juventus che minacciava il comune di spostare le proprie partite casalinghe lontano da Torino, e che voleva a tutti costi l’assegnazione dello stadio Delle Alpi, con un terzo incomodo, il Toro appunto che avrebbe potuto rivendicare parità di trattamento nei criteri di assegnazione delle aree, sparigliando le carte bianconere.

La vergognosa campagna mediatica dei quotidiani torinesi (con Vidulich che dopo aver venduto il Torino Calcio vinse anche la causa intentata proprio al giornale sportivo della città), servì a far terra bruciata intorno ai genovesi, lasciandoli da soli contro tutta la città, compresi i tifosi granata ormai pilotati da quel che quotidianamente usciva sui giornali. Fiore all’occhiello di questa campagna mediatica finalizzata alla distruzione del “terzo incomodo“, fu un grottesco messaggio Televideo in cui i Genovesi venivano definiti “alieni” e Cimminelli e Aghemo, nei giorni delle trattative per l’acquisizione della societàvalorosi condottieri che avrebbero liberato il Toro dagli invasori.

Se poi si considera che i debiti lasciati dai Genovesi erano più o meno quelli trovati al loro arrivo, più gli stipendi non pagati da dicembre 1999, e che Cimminelli al momento in cui rilevò il Toro, sapeva benissimo questa situazione, dando il suo placet, è impossibile non notare come una gestione, forse poco fortunata da un punto di vista sportivo, ma non certo scellerata, venne dipinta ai più come la più grossa sciagura che fosse capitata al Toro, forse proprio per il fatto che due personaggi troppo indipendenti dalla Fiat arrivarono al Toro in un contesto sbagliato, in anni sbagliati, avendo tutto e tutti contro, fino ad essere stati costretti a riconsegnare la società nelle mani di Cimminelli e quindi di nuovo della Fiat, perché se è vero che Cimminelli era un imprenditore autonomo, è altresì vero che i suoi soldi provenivano dalle commesse della Fiat, che quindi indirettamente controllava anche il Torino.

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Quel che successe al Toro di Cimminelli è illustrato perfettamente nell’articolo “Juventus Stadium, non regalato ma costruito sul fallimento del Torino“, che descrive in modo esaustivo chi fosse in realtà Cimminelli, ovvero un grande tifoso bianconero, come egli stesso non mancò spesso di dichiarare, che ha dovuto, suo malgrado, prestarsi ad un gioco immensamente più grande di lui, ma che per lo meno ebbe il pregio di dichiarare, in tempo reale col suo insediamento, cosa realmente pensasse del Toro e dei suoi tifosi, che finì col rimetterci letteralmente le mutande, per accomodare a favore del suo committente, e quindi di colui che gli permetteva di esistere, l’ingarbuglata e spinosa questione degli stadi, proprio nel momento in cui il Toro festeggiò la promozione in serie A con i vari QuagliarellaMudingayiBalzarettiMarchettiSorrentino, ecc., insomma con una squadra di quasi sicuro avvenire, smantellata a causa del crack finanziario dei granata un mese dopo la festa per il ritorno nella massima serie.

Il resto é storia recente e ironia della sorte in soli tre anni, dal 2003 al 2005 se ne andarono l’avvocato Gianni Agnelli, suo fratello Umberto e per ultimo proprio il Torino, che fallì dopo 99 anni di storia, anche e soprattutto a causa dei debiti accumulati per la ristrutturazione del comunale in vista delle Olimpiadi di Torino 2006, ovvero per il “favore” che Cimminelli fece alla Juventus per la questione stadi, affossato dal colpo di grazia delle false fideiussioni che non permisero ai granata di vedersi ratificata l’iscrizione al successivo campionato di serie A. Quel che fa impressione è osservare come la vita del Torino sia stata nel corso della storia, sempre in qualche modo legata e condizionata dalla Fiat, uniti da un filo sottile per tutta la loro esistenza, e paradossalmente anche nella morte dei suoi protagonisti che si compì in pochissimo tempo, quasi come se la scomparsa di un elemento, avesse in qualche modo condizionato l’altro portandolo alla morte.

La situazione attuale che vede una città, Torino, con due squadre in serie A, di cui una ricca, vincente, con uno stadio di proprietà e tifosi sparsi in tutta Italia, con la maggior fetta di diritti televisivi, e soprattutto famosa e conosciuta anche oltre confine, e l’altra squadra ormai ridotta al ruolo di provinciale, è il frutto per il Toro, di una vita vissuta all’ombra della Fiat, che nel mercato del lavoro ha raggiunto il ruolo di monopolista, andando man mano ad acquisire, e inglobare tutte le sue concorrenti, raggiungendo una posizione di predominanza su una città che si sviluppò proprio grazie alla Fiat, ma che restò schiava del suo stesso legame, andando in crisi nera quando il colosso automobilistico ha deciso di spostare il proprio business altrove.

D’altronde è risaputo come la Fiat, che ha dato vita e sostentamento a migliaia di aziende del proprio indotto, ha avuto poi su di essere il potere di vita o di morte, perché come sono state tantissime le aziende nate sotto l’ala protettrice di mamma Fiat, così sono moltissime quelle che la Fiat ha prima alimentato, poi lasciato senza lavoro fino alla lenta ma inesorabile morte, per poi rilevare a poco prezzo inglobandole nel gruppo. Questo è successo per esempio con la Ergom, tanto per restare in argomento, fallita nel 2007 e rilevata subito dopo dal gruppo Fiat, per una cifra simbolica. Ma destino analogo, con diverse sfaccettature, ebbero l’Alfa Romeo, acquisita dall’IRI grazie all’intercessione di Romano Prodi, così come LanciaAutobianchi e Ferrari che vennero acquisite dal gigante torinese a cifre minime.

Se questo è stato il modus operandi della Fiat a Torino e in Italia, ovvero controllare indirettamente prima, per poi poter decidere il destino dei suoi pericolosi concorrenti, è facile intuire come nel calcio, dove in fondo tutto è più semplice, la famiglia, si sia potuta comportare in modo analogo, e del resto troppe cose lo dimostrano, come ad esempio l’aneddoto narrato sul libro “Orfeo Pianelli. Il presidente del Toro Campione, ovvero di come fosse buona norma e quasi un dovere, prima di diventare presidente del Torino, avere il placet dell’Avvocato.

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Troppe cose sono andate in quella direzione, troppe stranezze hanno contraddistinto la storia dei granata, che ha visto i suoi migliori presidenti, andare in malora dopo aver ottenuto dei risultati con il Toro, oppure illustri personaggi come Luigi Giribaldi e Calisto Tanzi, che hanno preferito rinunciare all’acquisto del club, dopo esservi stati a un passo, e ancora presidenti come Sergio Rossi che abbandonarono inspiegabilmente la barca, rimettendoci anche del proprio, forse proprio per non fare la fine di quelli che col Toro sono finiti in disgrazia togliendo spazio e visibilità all’altra squadra della città.

La Fiat grazie alla famiglia Agnelli ha assunto una posizione di monopolio nella galassia automobilistica italiana e nel mondo del lavoro torinese, così come la Juventus ha sempre lavorato per ritagliarsi una posizione di monopolio a Torino, per poi conquistare l’Italia, controllando indirettamente, anche l’altra squadra, relegandola ad un ruolo di comprimaria, non in grado di intaccare la popolarità del club di famiglia.

E probabilmente aveva ragione il sindaco Valentino Castellani, quello che avrebbe dovuto farsi da garante tra i due club torinesi, nella questione degli stadi, e che invece fece pagare 13 milioni di euro in più al Toro, uno Stadio Comunale ormai in disuso e obsoleto, rispetto ad uno stadio, il Delle Alpi, costruito da meno di dieci anni e che ebbe addirittura il coraggio di sentenziare: “Troppe due squadre per la cittá di Torino“, e forse alla luce di quanto accaduto in questi settant’anni, mai frase fu più azzeccata, almeno nelle intenzioni di tutti quelli che al Torino hanno sempre messo i bastoni tra le ruote, compreso lui, ma che nessuno è riuscito a far scomparire, perchè la storia non si può cancellare coi magheggi, perchè la passione del popolo granata è più forte di tutti gli inciuci e anche dei poteri forti.

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E se anche oggi, a causa di decenni di indiretto controllo, il divario tra le due squadre torinesi è enorne e sembrerebbe quasi incolmabile, con la Fiat che ha scaricato completamente la città di Torino, si potrebbero aprire nuove opportunità  di rinascita per la città ex-feudo degli Agnelli,  e forse anche per il Toro che, guidato da un imprenditore, Urbano Cairo, finalmente indipendente da quelli che erano poteri forti di della città, potrebbe lentamente far tornare i granata ad occupare il posto che meritano nel panorama calcistico italiano, mentre la Fiat sbarcherà in Gran Bretagna e forse qualche club calcistico londinese già sta tremando…

6 febbraio 2014 By Omar Cecchelani 

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Sintesi dell’Ideologia Fascista

Che cos’è il Fascismo?

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Una Ideologia Moderna e Rivoluzionaria che mira ad edificare un nuovo tipo di società alternativa a quella espressa dalle democrazie liberali e capitaliste. Il Modello politico di questo Ideale prende il nome di STATO ETICO CORPORATIVO.

Che cosa è lo Stato Etico?
Il Fascismo afferma il valore di un individuo inserito all’interno di una compagine sociale che è la comunità nazionale. Tale comunità si eleva a realtà etica diventando Stato, un ente Morale Superiore che ha il compito di realizzare il Bene Comune dei Cittadini. L’individuo identificandosi con lo Stato, quindi con la sua Comunità di appartenenza, raggiunge la vera libertà. L’etica che permea la morale dello Stato Fascista è il Corporativismo.

Che cosa è il Corporativismo?
Il Corporativismo è una concezione Morale ed Etica della Politica da cui deriva una concezione socioeconomica che mette l’uomo al centro della società, ritenendolo una Componente essenziale della Comunità nazionale. Il Corporativismo concepisce dunque la Comunità Nazionale come un Corpo Organico in cui ogni “parte” concorre e collabora per il Bene Collettivo. Compito dello Stato è di realizzare un armonico collettivo all’interno del quale non sono ammesse divisioni e lotte intestine, in nome della più pura ed autentica Democrazia Organica, partecipata e corporativa.

Il Corporativismo è anche un principio economico?
Si, anche l’economia rientra nello Stato, a differenza delle economie capitalistiche dove è lasciata all’egoismo individualistico di mercati e privati. Il Fascismo non ritiene che l’egoismo dei singoli sia fonte di benessere per tutta la società ,e mira alla creazione di una società solidale ed altruistica nella quale l’economia sia un mezzo per garantire il benessere materiale della società, e nel quale il lavoro, assurgendo a valore morale, diventi non più l’oggetto ma il soggetto dell’economia.
Il Fascismo prevede la Partecipazione diretta del Lavoro nello Stato attraverso una Camera delle Corporazioni nella quale sono presenti i rappresentanti di ogni professione e delle diverse categorie produttrici, riuniti in sindacati di categoria che possano legiferare su questioni di loro competenza. Anche nelle aziende il lavoro partecipa alla gestione della “res publica” tramite una equa distribuzione degli utili.

Che differenza c’è tra Corporativismo Fascista e neocorporativismo anglosassone?
Il Corporativismo Fascista è qualcosa di completamente diverso dal sistema delle “corporates” americane, che sono singoli gruppi di potere che manipolano lo Stato per i propri egoistici interessi: nello Stato Etico Corporativo le corporazioni sono di fatto Organi dello Stato che concorrono al suo benessere e quindi al benessere della Collettività.

Il Fascismo è dunque una Dittatura Collettivistica?
Niente affatto, si tratta di indirizzare le iniziative private verso i bisogni della comunità realizzando quella sintesi armonica tra capitale e lavoro, individuo e Stato, libertà e autorità, uomo e donna, spirito e materia, che è necessità vitale dell’epoca moderna. Questa impostazione rivoluzionaria dei problemi è il sigillo impresso di una nuova Civiltà. Lo Stato Etico Corporativo non solo è compatibile con il pluralismo, ma anzi lo esalta, valorizzando i singoli impulsi, senza che essi degenerino nell’antagonismo e nella frammentazione. Citando Ugo Spirito: “lo Stato per realizzarsi nella sua integrità non ha bisogno di livellare, disindividualizzare, annientare l’individuo e vivere della sua distruzione: al contrario esso si potenzia col potenziamento dell’individuo, della sua libertà, della sua proprietà, della sua iniziativa, della sua peculiare posizione nei rapporti con gli altri individui”.

Ma quindi il Fascismo è Democratico?
Il Fascismo nega che i regimi liberali cosiddetti “democratici”, fondati sul monopolio del capitalismo finanziario, sulla dittatura dei parlamenti e dei partiti che non sono una libera espressione della volontà popolare, sulle clientele e sulla corruzione oligarchica, possano essere considerati regimi realmente democratici. Il Fascismo rivendica a se la pretesa di realizzare l’unica democrazia possibile: quella Organica ed Etico-Corporativa; dove il Popolo partecipa attivamente e in maniera diretta alla vita dello Stato, in quanto Cittadino e Produttore, attraverso le diverse istituzioni e le Corporazioni. La rappresentazione democratica, quindi, nel Fascismo, avviene non attraverso i partiti o le differenti ideologie, ma per categorie produttive.  La democrazia fascista non è intesa in senso materialistico, come nei regimi liberali dove il popolo è visto come “numero”, ma spiritualmente come l’idea che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti.

Il colore politico del Fascismo è il nero?

Contrariamente a quanto si pensi, il colore politico del Fascismo non è, nè mai fu, il nero! Il colore nero fu utilizzato in alcune rappresentazioni, in chiave patriottica e simbolica, per mero rispetto verso gli arditi e i caduti della grande Guerra. Ma il colore politico ufficiale del Fascismo è il giallo-rosso. Esso prende origine dalla Marcia su Roma; e trae ispirazione dalla Romanità antica e papalina, ovvero da quella che fu dei Cesari e dei Papi che resero grande la nostra Patria Italia.

Il Fascismo è una Civiltà Spirituale?
Il Fascismo respinge il materialismo che rende l’uomo una macchina dedita all’interesse esclusivo per la cura dei suoi propri interessi economici e materiali ,ed esalta un modello di società Spirituale che riassume tutte le forme della vita morale e intellettuale dell’uomo. il Fascismo crede ancora e sempre nella santità e nell’eroismo, concepisce la vita come lotta armonica e naturale, esalta quelle che sono le virtù etiche dell’uomo.
Il Fascismo ha una concezione della vita religiosa in quanto richiede una fede cosciente, assoluta ed intransigente ai valori etici e morali che permeano la comunità.

Questa Civiltà è solo italiana o Universale?
Il Fascismo, in continuità con la tradizione civile e imperiale di Roma, propone un Modello di Cittadinanza che trascende la mera appartenenza geografica e razziale per elevarsi a costruzione di una coscienza unitaria Universale. Per il Fascismo il concetto stesso di Nazione non ha carattere “materiale”, come nel nazionalismo, ma Spirituale. Lo Stato Fascista, superando i limiti di una visione fin troppo angusta e materialista non si pone confini territoriali, bensì affratella popoli e nazioni, crea un ponte tra culture differenti ed instaura un modello superiore di Civiltà. Civiltà che fu e sarà sempre Imperialista; cioè mondiale, nel senso più alto e più puro della parola.

Il Fascismo non e’ dunque razzista?
Esattamente. Il Fascismo, dottrina erede dell’Universalismo Romano, non è razzista e nemmeno antisemita. La sua concezione Spirituale supera il materialismo ,tipico della concezione naturalistica e biologica del razzismo, ed afferma il sommo valore dello Stato che affratella etnie, popoli e nazioni all’insegna della Civiltà Imperiale del Littorio. Per il Fascismo la cittadinanza è data dall’adesione ai valori etici e culturali trasmessi dallo Stato (Ius Culturae), che con la sua azione etico-pedagogica di massa è in grado di forgiare il carattere ed il temperamento degli uomini dando vita ad una nuova stirpe, a prescindere dall’etnia d’origine, che rappresenta l’Uomo Nuovo Fascista (Umanesimo della cultura e del Lavoro). Solo chi non vuole assimilarsi all’armonico collettivo fascista e mira invece ad intaccarlo ne viene coerentemente allontanato, a prescindere dalla sua etnia o ideologia.

Il Fascismo è di destra o di sinistra?
Per il Fascismo Destra e Sinistra sono parole vuote e prive di significato, appartengono alla fraseologia da museo dei sistemi liberali. Il Fascismo non è né di Destra né di Sinistra in quanto mira all’unità del Corpo Politico e Sociale della Nazione.

Quindi il Fascismo non è di Estrema Destra?
Non solo il Fascismo non è di Destra o di Estrema Destra, ma considera questa area politica come il principale ostacolo alla sua affermazione, sia perché si appropria illegittimamente del Fascismo, snaturandone l’essenza, sia perché idee e metodologie sono estranee al Fascismo e fanno invece comodo alla nomenklatura antifascista che vede identificati in essa gli stereotipi del fascista rozzo, violento, razzista e filonazista.

Può il Fascismo definirsi una forma di socialismo?
Il Fascismo ha superato le vecchie dicotomie Destra e Sinistra, così come ha ripreso e superato lo stesso socialismo. Partendo dal recupero di Mazzini e coniugandolo ad esperienze e concezioni successive (Sindacalismo Rivoluzionario di Sorel), il Fascismo definisce la sua Dottrina come UNICO SOCIALISMO POSSIBILE, permeato da una concezione Spiritualistica basata sulla “Rivoluzione Morale” della Cittadinanza. Il socialismo di Mussolini si ritrova nella Dottrina stessa, fondata sull’Etica, la Morale e la Giustizia Sociale. Una Dottrina che vuole il Sindacalismo Corporativo come base del Lavoro Nazionale (Stato Nazionale del Lavoro). Si tratta quindi, parafrasando Mussolini, di un “Socialismo Nostro”, un socialismo etico ed anti-materialista, un Socialismo della Patria e dello Spirito.

Hanno le religioni una particolare valenza per il Fascismo?
Il Fascismo riconosce e rispetta le religioni di un determinato popolo ,e rispetta la libertà di culto dei singoli cittadini fintanto che non siano in contrasto con l’etica dello Stato. Il Fascismo, rigettando le battaglie anticlericali del materialismo, auspica una società fondata sull’armonico collettivo all’interno del quale si stabilisca una retta Laicità fondata sulla concordia e sulla giustizia: Stato e Chiese che lavorino in campi distinti e definiti, ognuno nel proprio ambito e per la propria funzione.

Ha la Chiesa qualche particolare significato per il Fascismo?

Per il Fascismo la tradizione latina ed imperiale di Roma è rappresentata anche dal Cattolicesimo, che è un’idea universale che si irradia da Roma.

Qual è il simbolo del Fascismo?
L’emblema del Fascismo è il Fascio Littorio, simbolo dell’Unità, della Forza,dell’Armonia e della Giustizia sociale. L’unità del Corpo Sociale, le cui classi sono legate insieme dalle verghe che simboleggiano l’Unità, la cui forza, l’ascia, è garante della Giustizia.

Quale Partito oggi rappresenta l’Ideale Fascista?
Nessun partito odierno rappresenta l’Ideale del Fascismo mussoliniano- gentiliano. In particolar modo i partiti cosiddetti “neofascisti”, inseriti nel sistema partitocratico della repubblica nata dalla resistenza, che vengono ingenuamente associati ad esso.

Può dunque esistere la diversità di pensiero in uno Stato Etico Fascista?

Noi affermiamo che non solo può ma deve esistere! Senza di essa non vi sarebbe Fascismo. Il pensiero unico costituirebbe solo uno dei bastoncini che compongono il Fascio. Perciò, esattamente come Bombacci poteva dirigere durante il Ventennio la rivista leninista “La Verità” (dalla Pavda bolscevica); un comunista, un anarchico,un liberale, un repubblicano, un monarchico,un clericale ecc.. possono tranquillamente essere Fascisti, in quanto singole parti ,che seppur diverse, costituiscono il corpo unico della Nazione. Il Fascismo è l’insieme delle diversità armonizzate nella Patria. Il problema della “libertà” di espressione nasce quando una di queste parti organiche si ribella e mette in discussione l’intero Corpo Nazionale, in tal caso si sarà costretti , esattamente come quando un cancro si diffonde lungo i singoli organi, a rimuovere la parte dannosa per l’intero Organismo! Solo in tal caso il Fascismo Censurerebbe e reprimerebbe! Ora ditemi, senza veli d’ipocrisia, quale ideologia o sistema di potere non farebbe lo stesso ? Magari facendolo pure di nascosto spacciandolo persino come difesa della Libertà? Ogni organismo vivente, sia esso sociale o naturale, tenderà sempre a lottare per la propria sopravvivenza, armonizzando il particolare con il generale.

 

Liberamente ispirato da Giovanni Gentile(Dottrina del Fascismo-il Vangelo di Mussolini) e dall’Ass.Cult. Fascista.

 

Vostro Amatissimo et indomito

Fr:. Pleto – Cola de Rienzi

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Italia, federalismo e democrazia: alcune precisazioni

Da molto tempo in Italia si sente parlare di Federalismo. Verso la fine degli anni 80’ si formò persino un movimento politico, la Lega Nord, col fine di risolvere la questione settentrionale proprio con il Federalismo.

Ma che cos è il federalismo? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.

La causa del federalismo è portata avanti dalla teoria federalista, la quale asserisce che il federalismo implichi un sistema costituzionale robusto che ancori la democrazia pluralista e che incentivi la partecipazione democratica tramite una cittadinanza duale in una repubblica composta.

Da molti politologi è stato asserito che nelle più piccole unità politiche gli individui possono partecipare più direttamente rispetto ad un governo monolitico e unitario. Gli stessi politologi ci ricordano che sistemi di democrazia diretta o forme di autogoverno simili a quelle sperimentate in età classica sarebbero oggi impraticabili visti i milioni di persone che compongono gli Stati odierni, solamente un sistema politico decentrato e piccolo potrebbe dare la possibilità di sperimentare nuovamente forme dirette di democrazia.

Il decentramento territoriale dei poteri garantirebbe quindi un maggior rapporto fra il cittadino e la sua amministrazione. Ma facciamo un excursus storico..

La prima Repubblica in età contemporanea nacque negli USA, e adottò per la sua forma di stato un sistema politico federale. Questa Repubblica federale fu ideata dai suo padri fondatori, tutti federalisti, che a loro volta si ispirarono alla prima Repubblica della storia umana: la Res Pvblica Romana.

La Repubblica Romana, a differenza delle democrazie liberali odierne, adottò un sistema politico organico e oligarchico, senza però mai scadere nell’integralismo. Essa fu la fonte di ispirazione dei padri costituenti americani poiché poté sempre garantire il pluralismo grazie proprio ai suoi pesi e contrappesi e alla sua forma di federalismo municipale; si trattò infatti di una Repubblica delle città(Res Pvblica delle Poleis), dove un apparato centrale(Roma) gestiva il potere politico, ma che a sua volta delegava a livello locale(singoli comuni) la formazione delle singole leggi, il sistema fiscale, la possibilità di votare formando singoli comizi locali e addirittura di emettere moneta. Secoli dopo molti comuni italiani ed europei si ispireranno al “federalismo municipale romano” istituendo dei veri e propri patti “federali” fra la propria municipalità e il proprio Regno o Impero di appartenenza. Durante il sistema feudale in Europa si iniziò a praticare queste forme di autonomia legislativa anche per delle aree più grosse delle singole città: le regioni. Nacque così un modello di Federalismo più simile a quello che intendiamo noi oggi: il Federalismo delle regioni.

Anche il Risorgimento italiano fu animato da ideali federalisti. Come non ricordare il torinese neoguelfo Vincenzo Gioberti. Ne “Il primato morale e civile degli Italiani” Gioberti rivela il suo pensiero politico basato su un progetto riformistico e moderato facente leva sugli antichi valori cristiani, che a suo giudizio hanno da sempre accomunato tutti gli italiani, il cui obiettivo era la creazione di una federazione nazionale dei vari stati della penisola sotto la presidenza del Pontefice Romano.

L’opera di Gioberti divenne presto il fondamento del neoguelfismo federale, ebbe un grande successo e da essa nacque il cosiddetto partito neoguelfo che ispirerà poi la partecipazione di vari stati cattolici italiani alla prima guerra di indipendenza.

Sul versante repubblicano e positivista invece vi era il milanese Carlo Cattaneo, il quale viene ricordato per le sue idee federaliste impostate su un forte pensiero liberale e laico: dopo il 1860 acquisterà prospettive ideali vicine al nascente movimento operaio-socialista. All’alba dell’Unificazione italiana, Cattaneo era fautore di un sistema politico basato su una confederazione di stati italiani sullo stile della Svizzera. Egli, infatti, avendo stretto amicizia di vecchia data con politici ticinesi come Stefano Franscini, aveva ammirato nei suoi viaggi l’organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputava proprio a questa forma di governo.

Oggi in Italia l’unica forza che promuove il Federalismo regionale è la Lega Nord. Quest’ultima però è spesso costretta a ritrattare le sue posizione per far fede all’art.1 del suo statuto: il Secessionismo.

Vista l’ambiguità delle posizioni di quest’ultima, e visti i numerosi sprechi che hanno le regioni italiane, pare che un Federalismo regionale improntato sugli esempi delle grandi Repubbliche federali occidentali ed euroasiatiche sia molto lontano dal realizzarsi, almeno nel breve termine.

Altrettanto interessante sembra essere invece la proposta fatta nel Programma elettorale di Fratelli d’Italia, il quale, spinto dall’idea di due suoi ex dirigenti nazionali, Crosetto e Alemanno, proponevano un Federalismo fiscale municipale armonizzato allo Stato centrale; prevedendo di dare maggior potere ai sindaci sia in termini esattoriali che gestionali(il 70% delle tasse rimarrebbe nell’area metropolitana), in tal modo oltre a garantire un rapporto più diretto fra cittadino e amministrazione pubblica ci sarebbe anche una semplificazione sul prelievo delle imposte, dove la lista delle persone atte al controllo per evasione fiscale sarebbero ridotte al numero di persone residenti nel proprio comune.

Purtroppo anche questa iniziativa è stata velocemente accantonata nel dimenticatoio dagli stessi dirigenti di Fratelli d’Italia per far spazio alla triste retorica d’opposizione “filo-salviniana” vertente su migranti, rom e possibile pericolo islamico. Al momento, in Italia, nonostante i buoni presupposti iniziali, gli unici movimenti federalisti sembrano essersi attestati su posizioni estremiste e incoerenti, senza una chiara visione del futuro. Attenderemo i risvolti politici in vista di un futuro movimento che ponga al centro del dibattito una chiara riforma nazionale in senso federale.

Cola de Rienzi

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